Allora, vi dico già da subito che probabilmente questa non sarà l’ultima recensione che vedrete in questa newsletter, perché criticare cose AUDIOVISIVE (come dicono quellx del SETTORE) è la cosa che mi dà più gioia. Specialmente se le ho odiate profondamente come il film di Paola Cortellesi.
Il film si chiama, speranzosamente, “C’è ancora domani”.
Per contesto vi dico che è in bianco e nero ed è ambientato nel 1946.
La prima cosa che salta all’occhio è che le ambientazioni e il modo in cui le scene sono strutturate, anche registicamente, suggeriscono che siamo più in uno spettacolo teatrale che in un film - cosa che non mi dispiacerebbe in altri casi, se non fosse che ci troviamo in una specie di parodia accidentale, direi caricaturistica e mal riuscita, di una sorta di neorealismo. Anzi, più di quello che gli americani pensano che il neorealismo sia.
La storia segue le giornate della protagonista e ha come focus principale gli abusi fisici e verbali che subisce dal marito; ma restituisce anche la storia di tutta una società patriarcale che contorna e giustifica quel tipo di violenze.
La questione della violenza di genere viene rappresentata, tuttavia, come una specie di eredità che il marito riceve dal padre, anch’egli uomo violento e misogino. Il film fallisce nel concentrarsi sulla sistemicità di tale violenza, però, perché, in completo fascino #notallmen, fornisce anche un esempio positivo di uomo gentile che asseconda la moglie (mi riferisco al marito di Emanuela Fanelli, spalla comica totalmente sprecata).
La sensazione è che il personaggio della Fanelli, ma il film intero poi, tirando le somme, faccia venir voglia al maschio spettatore di dire: HAI VISTO! Pure quando si stava peggio c’erano dei bravi uomini! Figuriamoci adesso che invece ci siamo EVOLUTI e certe cose non succedono più…
Complice di questa vibe è il fatto che il patriarcato veicolato nelle azioni, ma soprattutto nei messaggi e nei dialogi fra i personaggi, è didascalico in maniera imbarazzante. I dialoghi, infatti, sono costituiti da una serie di frasi fatte, di quelle che si leggono nelle infografiche riassuntive dei clichè machisti, tipo “non fare la femminuccia” e cose simili. Nonostante sono assolutamente d’accordo sul fatto che non siamo progreditx granchè e che quel tipo specifico di sessismo, misoginia e patriarcato didascalico che viene rappresentato nel film sia ancora in parte presente nella nostra vita di tutti i giorni, non posso far a meno di pensare che il fatto che sia così palese inneschi inevitabilmente il già citato meccanismo della pacca sulla spalla: adesso siamo AVANTI! Le cose non sono più così! Come siamo bravi…
Il tono ridicolizzante è poi accentuato da una scelta ARTISTICA che ho trovato francamente raccapricciante: le scene in cui il marito picchia la protagonista sono state rappresentate a mò di balletto teatrale, in cui di fatto lei ce le prende in una coreografia musicata, eseguendo dei simpatici passi di danza; a mio avviso scelta non da poco che contribuisce pesantemente a mettere una patina di ridicolo su una questione molto seria come quella della violenza di genere.
Un altro personaggio maschile che vediamo comparire nel film è questo soldato americano con cui la protagonista fa amicizia, nonostante il gap linguistico (lei parla romano perché è SIMPATICA ed ITALIANA ok??????). Sono, ahimè, certa che il personaggio del soldato americano che non è sessista e, anzi, vuole aiutare la protagonista, faccia scattare immediatamente quel ragionamento delirante da boomer-neolib-Obama-stan, che dice “Eh ma VEDI….in America so sempre stati AVANTI”.
E non posso MAI accollarmi anche il discorso filoamericano…………
Di fatto, quello che ci vedo io, invece, è l’ennesima occasione mancata per portare sul grande schermo un discorso intersezionale: forse e dico FORSE si poteva accennare al fatto che magari il soldato capisce la discriminazione perché è nero e, quindi, al contrario degli altri uomini nel film ne subisce una anche lui? Anche se, qualora fosse stato così, probabilmente mi sarei lamentatx di quanto gli accenni non bastino e quanto possiamo fare di meglio perché sono incontentabile…..???
L’unico momento in cui viene da pensare che la protagonista stia per porre l’accento sulla sistematicità della violenza di genere è quando si accorge che il fidanzato (soon to be marito) della figlia le dice le stesse cose che le diceva suo marito da giovane: tu sei mia, ti devi truccare solo per me ecc. ecc. A questo punto, la protagonista non fa un discorso alla figlia, magari insegnandole a riconoscere in futuro le red flags, che ne so… MA risolve la situazione indovinate come? ESATTO! Facendosi aiutare da un altro uomo! Cioè impedendo il matrimonio per vie traverse, chiedendo al suo amico soldato di far esplodere il bar della famiglia del promesso sposo, che costituiva la fonte della sua ricchezza. Di fatto, la Cortellesi fa quello che Audre Lorde aveva sconsigliato di fare: smantellare la casa del padrone con i suoi attrezzi - perché, alla fine, la figlia e il tipo non si sposano solo ed unicamente perché il marito della protagonista decide che la famiglia dello sposo non ha più nulla di economicamente interessante da offrirgli.
Invece, un particolare che ho trovato interessante, ma che non riesco a capire se si tratta di una mia allucinazione da gender studies maniac o una scelta consapevole, è il fatto che il confine pubblico/privato venga rappresentato in maniera sì molto marcata, ma comunque molto calzante e non necessariamente caricaturale. Quando il padre del marito crepa (e godo) dicono tuttx che era un santo, perché tuttx sapevano che era una persona orrenda, specialmente nei confronti della defunta moglie e della moglie del figlio, ma nessunx è disposto a discuterne pubblicamente: l’omertà vince.
Quando il marito picchia la protagonista si premura di chiudere le finestre: l’abuso avviene sempre dentro casa, il vicinato sa ma non fa niente. Possiamo, quindi, dire che il film riesce a rappresentare allegoricamente tramite il confinamento fisico e la gestione degli spazi il modo in cui la protagonista è confinata metaforicamente tra le claustrofobiche ed oppressive mura domestiche.
Tuttavia, avrei ancora da ridire sul vicinato.
Il vicinato che vediamo, raccolto nel cortile per badare ai figli piccoli o per ritirare i panni stesi, è composto perlopiù da donne adulte, che sanno cosa succede nella casa della protagonista perché molto probabilmente succede lo stesso in casa loro, ma che di fatto restano immobili. Sebbene ciò rappresenti in modo esemplare la paralisi di quelle categorie che conoscono il terrore e il trauma collettivo che il patriarcato ha e continua a infliggere loro, queste scene, e il film nella sua interezza, falliscono nel rappresentare un’altra cosa che, nonostante tutto, in una maniera più ristretta o estesa, c’è sempre stata: la resistenza. Nel film non c’è traccia nemmeno della più neoliberale tanto nominata “solidarietà femminile”.
L’unica che sembra un po’ aver capito come boicottare il sistema sembra il personaggio della Fanelli, che, ad esempio, si offre di coprire la protagonista con il marito nel giorno in cui sembrava avesse deciso di scappare con una sua vecchia fiamma - uomo che viene rappresentato come passionale, forte e gentile ecc. ecc.
Di fatto, comunque, non le suggerisce mai di liberarsi, ma solo di trovarsi un uomo che è….meno peggio ??? Non che ad essere meglio di uno che ti picchia ci voglia molto, no?
La fuga con il vecchio amante viene sabotata dalla morte improvvisa del padre del marito, di cui la protagonista si trova a doversi occupare. Il personaggio della Fanelli, quindi, si reca alla veglia funebre in casa della protagonista e subito ritratta anche quello spiraglio di mutuo aiuto femminista che aveva accennato poco prima, dicendole, in riferimento alla mancata fuga: vabè ma che volevi fa, pensa ai figli…
Il fatto che questo personaggio dica questa frase non ci sorprende, perché qualche scena prima abbiamo modo di intuire che non può avere figli. (Non ne ha in un periodo in cui essere sposate e non figliare era sacrilego, si tiene il grembo in maniera malinconica quando vede passare una donna incinta e il marito la abbraccia facendole uno sguardo di compassione amorevole.)
Il personaggio della Fanelli, quindi, ha capito una serie di cose (suo marito lavora sostanzialmente per lei e non la picchia, non fa domande su dove va e in generale sembrano avere una bella relazione), ma comunque non evade l’ultimo vincolo della femminilità e soffre del suo non essere in grado di essere donna appieno, del suo non poter generare vita. Lungi da me dire che non si possa soffrire di una cosa del genere, però trovo irritante che l’unico personaggio un po’ sopra le righe che poteva farmi sperare in un momento anarchico alla fine asseconda comunque un qualche tipo di storyline da stereotipo del femminile.
E poi….arriviamo alla FAMOSA scena del voto.
Alla fine, infatti, quello che sembrava un altro piano per la fuga della protagonista si rivela essere un piano per uscire di casa e andare a votare per la prima volta (era la prima volta per tutte le donne, 1946).
A quel punto, il marito si presenta fuori dal seggio di voto visibilmente incazzato pronto a colpire e si trova davanti una schiera di donne che lo accerchiano e, senza dire niente, lo intimidiscono con lo sguardo, in un certo senso facendogli capire che non è aria. A quel punto, il marito si fa da parte e se ne va.
Ma…dove va? Bhe, andrà a casa, no…?
E cosa succede quando dopo aver votato torna a casa pure lei?
La scena del seggio di voto, a mio avviso, riduce la violenza a quel singolo momento, ad un, seppur l’ennesimo, fatto episodico, e fallisce nell’inquadrare la sistemicità del fenomeno, non problematizzando la dimensione domestica e, paradossalmente al titolo stesso del film, non dando uno sguardo sul futuro.
Infatti, per esempio, i figli maschi piccoli non imparano niente per tutto il film e rimangono banalmente cretini. L’unica che impara qualcosa è la figlia, ma non sono sicurx di cosa abbia veramente imparato ??? Ovviamente, non c’è nessun tentativo da parte della protagonista di educare i propri figli a non essere maschi violenti come il padre.
La morale del film, però, è che l’emancipazione passa per la conoscenza e per i diritti: la protagonista mette da parte dei soldi e li dà alla figlia per poter andare a scuola ed è fiera di sè stessa e delle altre donne perché hanno potuto finalmente prendere parte alle elezioni, essendo finalmente cittadine.
Dunque, le donne emancipate che votano e che vanno a scuola si salveranno…ma quelle stupide? o quelle che non vogliono votare o che non vogliono studiare? le botte se le meritano?
Ma poi…votare chi? Un altro uomo che prende decisioni per noi?
Il film è, dunque - non che mi aspettassi qualcosa di assai diverso - il trionfo del femminismo bianco neoliberale.
La presunta portata dirompente del film è nulla se vista con gli occhietti anarchici, o un minimo scettici, di chi non si fida della democrazia rappresentativa e/o dello stato.
Ma anche, banalmente, se recepita con la coscienza politica di chi non pensa che saranno i maschi a fare la nostra rivoluzione.
La review l’ho trovata molto bella e interessante, anche se non mi trova per niente d’accordo è bello leggere alcuni pareri divergenti rispetto ai propri. Però un aspetto lo trovo contraddittorio: se un lato tu dici che solo le donne emancipate ed educate che vanno a votare si salveranno (e non quelle a tuo dire stupide etc) allora perché l’aspettativa di educare i figli?
Mi spiego: se (prendendo in prestito le tue parole) una è “stupida” e non educata si può permettere l’anarchia e quindi di non educare a sua volta i figli, invece se una è colta e ci prova (mettendo da parte i soldi per mandare la figlia a scuola) allora sbaglia. I luoghi dell’istruzione sono stati anche loro (e non solo) un posto di autocoscienza femminista che sicuramente non ti cade dal cielo in quegli ambienti, dove l’auto organizzazione è spesso impedita. Non sto dicendo non ci fossero delle paladine del femminismo, che ci sono sempre state, ma che sicuramente far ricadere l’educazione sempre e solo sulle donne (educate… che poi, manco troppo) è l’ennesimo accollarsi alle madri che a scuola manco ci sono potute andare
e inoltre perché renderlo solo (di nuovo) appannaggio della madre? Perché solo la cortellesi avrebbe dovuto educare i due figli maschi in un mondo dove quei bambini hanno più diritti e più rispetto di lei? Non diceva Angela Davis che non è compito dell’oppresso educare l’oppressore? Perché anche se una è “colta” (nei limiti) sbaglia se non educa, invece se una non lo è può fare quello che vuole?
Come dire che se non vuoi studiare e non vuoi votare allora hai il diritto di non educare i tuoi figli (e fin qui va bene, se questo diritto lo riconoscessimo anche alle donne che invece studiano e vogliono votare)
Inoltre se non ricordo male lei prova a parlare con la figlia che invece non l’ascolta, tentando un suo intervento nella questione (e da lí la bellissima frase “però tu sei ancora in tempo ma’ “)
L’altro aspetto è che per quanto sarebbe stato bello anzi bellissimo che fosse stata Emanuela fanelli insieme alla cortellesi a far saltare in aria il bar, invece che il soldato, ci troviamo in un momento dove una donna da sola era impensabile. Impensabile sopravvivere, impensabile campare: cercare aiuto in altri uomini per quanto fosse pericoloso e fomentasse il patriarcato era l’unica realtà che queste donne conoscevano. Non sto dicendo che le tue osservazioni non siano corrette, ma che sarebbe stato bellissimo avere un film anarco-transfemminista intersezionale ma che nel 46 la realtà era ben diversa da quello (che non abbiamo manco oggi) e che purtroppo anche la storia segue lo sviluppo costretto/ dal capitalismo. Forse la Cortellesi ha voluto narrare la storia della maggioranza, che a scuola ci voleva andare così come io voglio andare all’università, che sognava l’amore e il sostegno psicologico anche se rischioso perché nelle mani di un altro uomo, potenzialmente oppressore. Un po’ provocatorio il mio commento ma so che forse nascerà una bella discussione in merito ;)